In questo sito non c'è nulla di speciale, è solo
una raccolta di vecchie fotografie per celebrare il trentatreesimo
anniversario di attività di un gruppo spontaneo teatrale che si diede il
nome di "Anonimi Ignoti".
Questo gruppo nacque nel settembre 1972 e presentò
il primo spettacolo l'8 dicembre 1972.
Gruppo fu formato da giovani che, da allora ad
oggi, per pura passione, si sono divertiti a recitare classici e
presentarli, senza grandi pretese, ad un migliaio di spettatori (in
circa 70 recite).
Oggi questi "attori" sono padri (e forse anche
nonni), manager, personaggi pubblici, disoccupati e pensionati e per
questo motivo ho evitato di citarne i nomi finchè gli interessati non
provvederanno ad autorizzarne la pubblicazione in rete anche tramite
email (dzaccar@gmail.com) non dimenticando di inserire il proprio
indirizzo per essere
eventualmente contattati.
Voglio qui trascrivere un discorso improvvisato da
Jacques Copeau dal palcoscenico del Washinhton Square Players, uno dei
più grandi registi francesi, per illustrare ad un gruppo di giovani
l'utilità del teatro dilettantistico.
I dilettanti ci salveranno:
Chi, dopo di noi, scriverà la storia del
rinnovamento teatrale del XX° secolo, dovrà assolutamente constatare
come in tutti i paesi, in epoche diverse, senza che la più piccola
comunicazione si fosse stabilita tra i differenti iniziatori di questi
movimenti, senza che essi avessero la benché minima notizia intorno ai loro
sforzi, le cose si siano svolte nella stessa maniera. Uno stesso
bisogno, una stessa aspirazione hanno provocato identiche imprese. Ed
uomini si sono incontrati, spesso a caso; s'erano conosciuti la vigilia.
Hanno discusso tutta la notte, bruciando la stessa fiamma, con l'ardore
e la confidenza della giovinezza; hanno messo in comune le loro energie,
le intelligenze, le risorse quando ne hanno avute. Hanno riunito intorno
ad essi una piccola troupe d'amatori, d'artisti, di artigiani, gente del
popolo e della piccola borghesia ed hanno assieme tentato la fortuna.
Questi iniziatori sono generalmente uno scrittore e un attore. Tutti e
due giovani ancora, hanno fatto la loro esperienza; lo scrittore ha
conosciuto la superba stupidità del preteso "uomo di teatro" che venti
volte gli ha dimostrato la necessità di dover rinunciare alla vera
sensibilità, ad ogni immaginazione, ad ogni sincera originalità, per
adottare le ricette ed i trucchi che conducono al sicuro successo e al
guadagno. Egli ha sentito venti volte le stesse teorie sulla bassezza
del pubblico e sui mezzi per guadagnarsi il suo plauso. Ha conosciuto le
condiscendenze della critica verso la rozzezza della produzione corrente
e la sua leggerezza verso le opere che invece valevano. Ha assistito
alla sconfitta dei suoi amici di giovinezza, a poco a poco acquisiti
tutti dalle esigenze del teatro commerciale. Ma non ha perduto né il
rispetto della sua arte né la fede in se stesso. L'attore, da parte sua,
ha navigato sulla barca del teatro. Ha appreso a sue spese che il
mestiere di commediante, se non è esercitato con spirito sublime,
costituisce la più degradante delle parodie. Egli si è abbeverato
dell'ignoranza e della sciocchezza dei suoi capi, della volgarità e
della vanità comica dei suoi compagni. S'è bagnato nell'atmosfera fetida
e sterilizzante del teatro professionale. Ha conosciuto la distruzione
delle energie, la perdita del tempo, l'abbruttimento delle repliche, gli
intrighi delle quinte, la frivolezza dello spirito e la miseria del
cuore, tutto quello che noi riassumiamo in un unica parola: il mestiere.
Industrializzazione e mestiere: ecco la doppia peste del teatro, ecco la
doppia sorgente dalla quale è scaturita la nostra comune indignazione.
Industrializzazione e mestiere: l'odio che noi portiamo loro, noi tutti
uniti, lavoratori dei due emisferi. A queste detestate realtà, fatte
della nostra vita stessa: disinteressamento e giovinezza, amore e
libertà...
Noi pensiamo che non basta protestare, non basta battagliare per una
causa perduta, non basta criticare o disprezzare. Pensiamo che è
ridicolo ammettere che il teatro sia per sempre abbandonato ai mercanti,
interdetto agli artisti e considerato da loro come luogo di
prostituzione.
Ci siamo domandati se alla coalizione degli interessi e degli appetiti
materiali noi saremmo capaci di opporre una coalizione di buone volontà;
se il super sacrificio, guidato dallo spirito, potesse aver ragione di
questi egoismi fitti impelagati nella materia, e ci siamo risoluti a
riconquistare quel dominio della nostra arte, quella regione che ci
appartiene e dove noi eravamo sul punto di non trovare più il posto ove
poggiare i piedi. Ma che cosa è il mestiere? Non sappiamo, invero, che
cosa esso sia, tanto ne siamo infetti, saturi. Tutti si lamentano del
mestiere e tutti sono un po' mestieranti. Il mestiere è una malattia che
non rovina soltanto il teatro; è la malattia dell'insincerità, o
piuttosto della falsità. Chi viene infettato da questo male cessa di
essere un individuo autentico, un essere umano.
È smonetizzato, snaturato. La realtà esteriore non colpisce più i
commedianti. I suoi sentimenti non li prova più; nel momento in cui essi
nascono si distaccano in qualche modo dalla sua personalità. Il mestiere
del commediante non è l'ipocrisia; esso non implica né il desiderio né
l'intenzione di ingannare. Al contrario, persegue una sincerità che gli
sfugge sempre di più. È un miraggio della personalità. Implica
debolezza, povertà, ma non perversità. Comporta tutti gli scalini, tutte
le sfumature. È per questo che io dico che noi ne siamo avvelenati e non
lo riconosciamo che là dove la sua smorfia è più grossolana e più
offensiva: sul teatro e non sempre. Ma se noi avessimo veramente nozione
di ciò che è la semplicità nella sua grazia, nella sua libertà, nel suo
equilibrio, di ciò che è l'armonia nel carattere, nelle proporzioni, nel
sentimento e nei gesti, non potremmo davvero gettare gli occhi sulla
scena, perché vedremmo che là è tutto corrotto, sofisticato, menzognero.
Per ritrovare questa vivente semplicità, dobbiamo lavarci da tutte le
contaminazioni del teatro, spogliandoci da tutte le sue abitudini. E
questo risultato lo terremo non tanto insegnando ai nostri giovani
attori una tecnica nuova, quanto trasmettendo loro il saper vivere, il
saper sentire, cambiando il loro carattere, facendo di loro degli esseri
umani. Torni l'attore ad essere un uomo e ne seguiranno, naturalmente,
tutti i relativi cambiamenti nel teatro. Non possiamo davvero sperare di
fare di tutti i nostri commedianti delle personalità paragonabili a
quelle della Duse; ma forse potremo giungere a dare a ciascuna di queste
giovani anime che vogliamo formare, una scintilla di quello spirito di
cui la Duse è la più alta incarnazione.
L'opera più utile ed immediata che possano compiere i "piccoli teatri" è
quella di lavorare per il rinnovamento della scena chiamandovi "non
professionisti". Ci chiamino amatori, ciò non ha importanza. Anche
Molière era un amatore, non c'è nome più bello. E noi rivendichiamo, in
effetti, di essere coloro che amano il lavoro che fanno. E se i "piccoli
teatri" non serviranno per il momento che a mostrarci degli attori senza
pretese, con giovani figure non deformate dalla smorfia professionale,
dall'orribile mimica dei tratti abituati ad esprimere ogni giorno,
questo sarà già abbastanza per noi.
Ultimamente assistevo alla rappresentazione di uno dei vostri "piccoli
teatri" ed osservavo sulla scena una giovane donna di modesta andatura,
con un volto sensibile, una voce tenera e un po' velata. Mancava
assolutamente di tecnica; non aveva la più pallida idea. Non sapeva
camminare sulla scena, non sapeva entrarne, né uscirne; non sapeva
neanche accompagnare la parola con i gesti appropriati all'azione del
dialogo e teneva costantemente le braccia strette al corpo. Solamente
alla fine del suo parlare allontanò le braccia con semplicità e tacque
bruscamente, guardando innanzi a sé come se continuasse a vivere il suo
pensiero nel silenzio. Ebbene, quel gesto mi parve ammirabile; c'era nel
suo sguardo una umana emozione che mi fece venire le lacrime.
Avevo veramente una donna davanti e le lacrime che mi procurò non erano
quelle lacrime involontarie che ci fa spargere talvolta l'eccitazione
nervosa... Erano lacrime vere, naturali, umane anch'esse.
Ecco quel che è necessario preservare nell'interprete del dramma futuro,
per far questo bisogna tenerlo a contatto costante con la vita, con i
doveri, con i piaceri, con gli obblighi, con i lavori umili della vita
quotidiana. Bisogna svilupparlo armoniosamente. Bisogna difenderlo dallo
specializzarsi, dal meccanizzarsi per l'abuso della tecnica. A mio
avviso la tecnica dell'interprete drammatico non deve essere sviluppata
al di là di un certo limite; appena si sente capace di esprimere troppo
si sente già un virtuoso; non è più il servitore della sua arte; si
gioca dei suoi mezzi, si gioca di se stesso. L'interpretazione sincera e
rispettosa deve avere la qualità del dramma interpretato, ma gli deve
restare inferiore di un gradino, gli deve restare sotto di mezzo tono.
Voglio dire che per procurare un piacere poetico completo,
l'interpretazione deve lasciar planare al di sopra di sé qualcosa di
superiore a se stessa, d'intangibile, che altro non è che lo spirito
impalpabile del dramma, la presenza indicibile dell'anima del poeta.
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